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Published on: La Farandola News

Articolo del Prof. Claudio Strinati per la rivista La Farandola NEWS

Il Futuro del Patrimonio Culturale Italiano: Gestione e Tutela.

L’elemento macroscopico che appare in tutta la sua evidenza relativo all’evoluzione dei principi della gestione e della tutela delle Patrimonio artistico è quello della esaltazione da parte delle autorità competenti della valorizzazione rispetto a ogni altro fattore. La individuazione della figura del manager come figura indispensabile per garantire un futuro fervido e redditizio, nel senso migliore del termine, al nostro patrimonio viene sempre più considerata risolutrice nell’ambito di una tale problematica.

Gli attuali Dirigenti o Soprintendenti museali o territoriali del Ministero dei beni culturali mantengono ancora, per lo più, la fisionomia di dirigenti pubblici, servitori dello Stato per come sono stati configurati per decenni e comunque per tutto il corso del ventesimo secolo. Tuttavia a tale mansione si sovrappone ormai la funzione manageriale che fa dei pubblici dipendenti funzionari responsabili del patrimonio con forti caratterizzazioni di tipo privatistico.

Il mettere a reddito un qualsivoglia patrimonio implica ovviamente scelte di carattere manageriale legate al successo, al legittimo arricchimento, allo sviluppo sostenibile, all’aumento dei flussi turistici connessi con le visite ai musei e alle aree archeologiche con conseguente vantaggio per le casse dello Stato.

Tutto questo non ha fatto venire meno la funzione del tutore del patrimonio artistico, soltanto è stato, se non modificato, rettificato il principio che dice come non ci sia valorizzazione senza tutela. Tale assunto non è modificato in nulla né in sede teoretica, né in sede legislativa, né in sede operativa. Vige, però, ancorché non esplicitamente dichiarato il principio della “ragione prevalente”. Fermo restando come il principio della tutela sia ineliminabile e indiscusso, si ammette adesso che in presenza di un prevalente interesse di valorizzazione, la tutela debba o possa essere intesa soprattutto quale supporto, certamente indispensabile, dell’opera di valorizzazione stessa. Supporto, tuttavia, non fattore primario. Il recente allestimento sul Colle Palatino a Roma di una megastruttura per l’opera rock Nerone ha implicato uno sforzo colossale di apprestamento di strutture modernissime e di impiantistica molto sviluppata date le esigenze del music-hall. Tuttavia alcuni aspetti collaterali sovente considerati inerenti alla tutela, ad esempio la tranquillità dei luoghi, il privilegiamento della dimensione della visita rispetto a quella dell’“entertainment” ancorché artisticamente rilevante e qualificatissimo, il mantenimento della skyline del sito componente essenziale della sua fruizione, l’ipersollecitazione del sito stesso appunto tramite impiantistiche prevaricanti, l’implicito suggerimento di concentrare l’attenzione mirata su determinate categorie di beni artistici su altri ivi trasferiti e non necessariamente inerenti al sito stesso; non vengono sottoposti al vaglio della pubblica opinione e non costituiscono materia di dibattito civile e costruttivo.

Il privilegiamento, dunque, della dimensione della valorizzazione su ogni altra, implica l’ingresso in un tipo di mentalità non certamente più permissivo ma diverso dalla tradizione precedente dato che è impensabile che chi è chiamato dallo Stato a proteggere e tutelare luoghi di interesse artistico, architettonico o archeologico, possa ammettere di derogare a tale principio supremo. Ma la comunicazione che un tempo verteva essenzialmente su tale aspetto, oggi verte quasi esclusivamente sul piano della valorizzazione. È sufficiente che l’amministrazione garantisca che nessun danno (materiale o morale) venga prodotto da allestimenti tipo music-hall o consimili, per giustificare appieno la scelta della nuova procedura della valorizzazione, posto naturalmente che il palco del music-hall, nel nostro esempio, sia collocato nell’ambito di tale criterio, fatto che sembrerebbe però indiscutibile.

È vero che l’amministrazione può affittare spazi pubblici di rilevanza storico-artistica-archeologica per manifestazioni che non si pongano affatto come valorizzazione del patrimonio ma si pongono come utilizzo al fine di valorizzare il proprio lavoro privato che si giova quale quinta, sfondo, suggestione del bene storico artistico archeologico sfruttato, dunque, per quell’“allure” che porta con sé, valore aggiunto al possibile successo di questa o quella manifestazione.

Qui non si può parlare di attività di valorizzazione svolta dai manager ministeriali ma di più o meno accorto affitto di spazi dotati di rilevanza culturale per trarne il maggior legittimo lucro possibile per l’amministrazione stessa, essendo quei luoghi ambitissimi anche da chi non ha precisa idea della intrinseca rilevanza culturale dei siti ma li reputa utili per lucrare meglio sulla propria attività.

È una funzione di mero servizio che non va disprezzata ma deve essere vigilata per non mortificare proprio quella peculiare attività di valorizzazione su cui il Ministero punta la maggior parte delle sue carte. Ma per puntare la carta vincente bisogna conoscere le regole del gioco, essere certI di avere in mano punti importanti o, al più, sapere gestire il “bluff” ove si sia costretti a farlo con intelligente vantaggio personale trasformando un elemento di debolezza in uno di forza.

Ma tutto questo rientra nelle regole scritte o convenzionali, appunto, del gioco democratico in cui il valore dei beni può essere legittimamente paragonato a quello delle carte da gioco nella partita. Vinco se so valorizzare ciò che ho in mano. Ma se non ho molto in mano e sono furbo e capace posso provare a vincere lo stesso facendo fruttare insieme l’oggettività dei punti e la soggettività della mia fervida mente, che sa ingannare certo, a buon bisogno e con nobile fine, ma ad armi pari, dato che nessuno conosce i punti in mano all’avversario ma può provare a prevederli. Questo è uno dei risultati, sia pur ludici in questo esempio, di un sapere profondo, ma, al di fuori dell’irriverente paragone qui adombrato tra beni culturali e gioco delle carte, è ovvio come la managerialità dei beni culturali implichi anche la capacità di volgere a favore della valorizzazione di tali beni anche elementi di apparente debolezza per l’amministrazione stessa, primo fra tutti quello della cronica mancanza di fondi.

Questo però non deve autorizzare, per proseguire col nostro scherzo, a cambiare le carte in tavola. O per meglio dire può anche autorizzarlo ma a condizione di mantenere una strategia di attacco e di dominio rispetto alle cose che trattiamo. Il che, tradotto in linguaggio ufficiale e fuor d’esempio, vuol dire tutela. Allora il discorso è questo. C’è il rischio di cadere in una trappola: affrontando i beni culturali nel nome di una valorizzazione mirante comunque al risultato economicamente vantaggioso, dobbiamo essere in grado di riconoscere gli eventuali bluff o errori dei nostri interlocutori.

Questi possono essere onestissimi o mascalzoni.

L’Amministrazione però non può né deve perdere la sua capacità di ordinamento, programmazione, cognizione effettiva e competente delle cose. Se la valorizzazione arrivasse a delegare troppo tali prerogative (e i rischi in tal senso sono evidenti) verremmo in parte meno alla missione che lo Stato ci affida costituendo e alimentando il Ministero dei beni culturali.

Il principio della valorizzazione non può dunque mai uscire da questo binario normativo e concettuale, onorando la titolazione del Ministero che è appunto ai beni e alle attività culturali. Là dove il termine “ attività” non è sinonimo di “ valorizzazione” con tutte le conseguenze culturali e giuridiche del caso. Un punto che non deve essere mai ignorato e che va anzi sempre più approfondito in sede di proposta e di iniziativa.

Prof. Claudio Strinati
Storico dell’arte