Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, cambia completamente il modo di osservare la realtà.
A cura di Franco Massimi
Dalla “modernità” si passa alla “post modernità”, un atteggiamento che induce a una rivoluzione negli ideali sociali e, successivamente, anche in quelli dell’arte: è il periodo del cosiddetto “pensiero debole”, del relativismo dei valori, che in arte ha la conseguenza epocale di conclamare la fine del concetto di Avanguardia.
Con la fine dell’Avanguardia è esaurita l’idea di un’utopia progressista e progettuale, un corollario importante che, di fatto, annulla il concetto di “superamento” di una tendenza e, complice un’oggettiva stanchezza delle espressioni artistiche concettuali, si favorisce il recupero di forme espressive che si ritenevano ormai superate.
È il ritorno in grande della pittura figurativa, che in Italia prende il nome di Trans Avanguardia e di Neoespressionismo in Germania, mentre negli Stati Uniti l’unico fenomeno davvero importante e il Graffitismo.
La Trans Avanguardia, con un numero consistente di seguaci che dipingono con le stesse intenzioni, conquista in breve tempo il mercato d’arte internazionale. La pittura (e la scultura) che si propone incontra il gusto del sistema dell’arte: (per sistema dell’arte, ricordiamo, si intende l’insieme di artisti, galleristi, musei, critici, collezionisti privati istituzionali e pubblico che formano un “sistema” di relazioni che ruota attorno alla produzione artistica) è colorata, violenta, gestuale, emotiva, mitica e mediterranea.
Anche in Germania c’è un ritorno alla pittura, tuttavia, per quanto si cerchino affinità con gli artisti italiani e con la loro pittura, quella tedesca si muove da idee del tutto differenti: è la grande tradizione dell’Espressionismo che si presenta senza soluzioni di continuità con il passato.
Sia la pittura italiana che quella tedesca conoscono un successo strepitoso, e anche gli Stati Uniti, protagonisti nel mercato dell’arte internazionale, hanno dovuto accettare proposte provenienti dall’Europa. Negli Stati Uniti non si era sviluppata nessuna tendenza capace di contrapporvisi. Modernità, postmodernità, neo modernità, i nuovi sistemi dell’arte, esauriti dalla lunga stagione delle Neoavanguardie degli anni Sessanta e Settanta, hanno portato conseguenze importanti nella fruizione e, soprattutto, nella produzione dell’arte. Si è già detto della sensazione di “stanchezza” concettuale raggiunta alla fine degli anni Settanta a proposito di tendenze eccessivamente rivolte alla definizione dei propri strumenti d‘azione, cioè sfacciatamente autoreferenziali e quindi, alla fine, forvianti e ripetitive. Ma il risultato più importante ed esaltante, a chiusura di questa lunga fase egemonica delle Neoavanguardie, è che le altre tendenze continuavano ovviamente e ostinatamente a esistere e a produrre, ma non venivano prese in considerazione come facenti parte del flusso più vivo e innovatore del linguaggio artistico. E questo ha rappresentato, alla lunga, la fine delle avanguardie stesse. Non tanto la fine per esaurimento di una vena espressiva, poetica, teorica o concettuale di una o più tendenze d’Avanguardia, ma la fine, sul piano teorico e pratico del concetto stesso di Avanguardia.
Come era potuto accadere, dopo un periodo in cui le Avanguardie non solo erano padrone del campo ma addirittura facevano a gara per spingersi sempre più in là alla ricerca di nuovi territori linguistici da colonizzare? La risposta viene da una duplice serie di considerazioni: la prima ancorata strettamente al sistema dell’arte, del gusto e del costume, la seconda riconducibile al mutamento epocale rispetto al passato recente, conosciuto come “condizione postmoderna”.
A proposito dei mutamenti del gusto e dei concetti all’interno del sistema dell’arte, vale la pena rammentare che la posizione nei confronti delle Avanguardie era sostanzialmente mutata nel corso degli anni.
Se è vero che all’inizio del secolo le avanguardie costituivano un piccolo numero di “esploratori dell’arte”, che sperimentavano ciò che altri avrebbero usato poi e che per far questo dovevano scardinare e abbattere le impalcature tradizionali – e che per ottenere risultati visibili dovevano “scandalizzare”, provocare, sollecitare un pubblico impreparato alla provocazione che, dunque s’indignava, protestava, negava valore a quelle espressioni – è altrettanto vero che il gusto e l’atteggiamento del pubblico nel corso dei decenni è totalmente mutato, tanto da accettare e ricercare la novità a tutti i costi.
In altre parole, la tradizione dell’arte ha ceduto il primato alla ricerca del nuovo, tanto che si parla addirittura di “tradizione del nuovo” proprio per quell’insieme di correnti d’avanguardia cresciute nella prima metà del XX secolo: la novità, la provocazione, la sorpresa sono diventate caratteristiche fondamentali dell’arte contemporanea, e la svolta di questo atteggiamento si può individuare ancora una volta negli anni Sessanta (nonostante certe ironiche prese di posizione di rotocalchi a grande tiratura nei confronti delle “bizzarrie” di Lucio Fontana, di Piero Manzoni o di Yves Klein).
Tuttavia, questo comportamento di “abitudine” all’Avanguardia e alla proposizione di sperimentazioni linguistiche sempre nuove, rappresenta la maturazione del gusto e della sostanziale “vittoria” del comportamento “avanguardistico” presso la maggioranza dei fruitori dell’arte, e ha prodotto un effetto collaterale rilevante: quando l’Avanguardia è “diffusa”, cioè accettata dai più, cessa di essere Avanguardia e diventa qualcos’altro, non essendo più costituita da un manipolo di innovatori, ma dal “grosso” degli intenditori. L’arte deve essere avanguardistica, altrimenti non è “moderna”; a questo punto “essere d’Avanguardia” diventa caratteristica essenziale e intrinseca per ogni movimento, per ogni opera, e ciò contrasta con lo statuto stesso dell’Avanguardia, che è “fuga in avanti” di pochi artisti, ricerca, spesso osteggiata dagli altri, di consapevolezza e presunzione di aprire nuove strade linguistiche contro il sentire comune.