PUPI AVATI
La Farandola News ha l’onore di incontrare un regista, sceneggiatore e produttore Italiano, il cui spessore, unito all’indiscusso talento, l’ha consacrato come uno dei più importanti e prolifici registi italiani: Pupi Avati. La sua carriera, costellata di grandi successi cinematografici e televisivi, uniti ai riconoscimenti da parte della critica, rende il giusto merito al lavoro minuzioso e attento che solo chi svolge tale professione con passione capisce, condivide, apprezza.
Maestro, è vero che il suo sogno era diventare un grande clarinettista jazz, poi però è successo qualcosa. Ce ne vuole parlare?
È vero, quando ero ragazzo, l’Italia era nel pieno dopoguerra, era una nazione completamente influenzata dalla cultura americana, quindi da tutto quello che veniva da oltreoceano e la musica, anzi in particolare il jazz, era qualcosa di assolutamente nuovo e trasgressivo. A Bologna, come anche altrove, si formarono negli ambiti universitari delle orchestrine, delle jazz band, e io coltivai questo sogno, studiai il clarinetto ed ebbi per molto tempo delle grandi soddisfazioni, perché far parte di un gruppo jazzisti negli anni Sessanta e Settanta era molto piacevole. Finché non mi accorsi che il mio talento non era sufficiente per diventare un grande clarinettista. Entrò infatti nel nostro gruppo Lucio Dalla, un ragazzino che suonava lo stesso mio strumento e aveva un grande talento musicale, al contrario mio, per cui lo invidiai tanto ma mi mise nella condizione di fare i conti con me stesso e chiedermi perché tutti i miei sforzi non producessero i risultati che invece otteneva lui, con minore sforzo. La risposta era che non avevo talento musicale, non ero fatto per fare il musicista. Capire e razionalizzare una cosa del genere a venti, ventidue anni, riporre lo strumento nell’astuccio e guardare oltre, non è per nulla facile. Poi la storia della mia vita si è mossa altrove, su altri binari, quando, per un caso fortuito, vidi un film di Fellini, 8 ½.
È allora che ha deciso di fare il regista? Quella è stata la scintilla che è scattata in lei?
Sì, perché di film ne avevo visti a migliaia allora, si andava tantissimo al cinema, al contrario di oggi, e io ero un appassionato. Vedere 8 ½ è stata una rivelazione e da allora il mio sogno è diventato il cinema, non più il jazz. Così è iniziato un percorso tortuoso che ha portato me e il mio gruppo a fare il primo film a Bologna, finanziato da un magnate locale, poi un secondo, sempre grazie allo stesso magnate, che ha sborsato in quegli anni, tra il 1968 e il 1969, 260 milioni, una cifra enorme. L’insuccesso di questi primi due film fu tale che il gruppo si sciolse, coloro che avevano lavorato con me se ne andarono; Bologna inoltre, almeno allora, era una città di provincia, che non consentiva di fare cose nuove, spericolate come il cinema, inoltre l’ambiente era provinciale, spietato per certi versi. Così me ne andai con mia moglie e i miei due figli, scappai a Roma dove per quattro anni restai disoccupato, alla ricerca di un recupero per la mia carriera, in un certo senso già compromessa.
Qual è il tema di fondo delle storie raccontate nella sua lunga e fortunata carriera di autore e regista cinematografico?
Me stesso. Io credo che il mio cinema sia eterogeneo, che riguardi tutti i generi – dai generi cinematografici ai contesti narrativi, tranne il western, e mi sono sempre sforzato di portar fuori la mia identità, perché se si è autori, non ci si deve lasciar influenzare da ciò che è stato, ma bisogna crearsi una propria identità, far emergere il proprio sguardo, il proprio punto di vista. All’inizio, ad esempio, io ero molto influenzato da Fellini, ma col tempo mi sono liberato di questa presenza, ho trovato una mia dimensione. Perché un regista deve far emergere sempre se stesso, dai suoi film, ci deve essere nelle mie opere qualcosa che faccia dire allo spettatore: “Questo è un film di Pupi!”.
I registi si dividono in due categorie: quelli che sanno lavorare su una sceneggiatura che viene loro affidata e quelli che sanno lavorare solo partendo da una loro idea. I francesi li chiamano “realizzatori” e “autori”.
Sì, è vero. Non si capisce perché in certi manifesti o nei titoli si legge “film di”, mentre poi la sceneggiatura non è effettivamente di quel regista. Nel cinema d’autore, l’autore appunto, dall’inizio, dal primo spermatozoo, dall’idea, è responsabile di ogni cosa, di tutto il percorso sino alla copia campione. Poi ci sono gli “illustratori”, che mettono in scena testi, storie, idee altrui, anche se sempre meritevoli di attenzione.
Parliamo del film presentato alla 65a Mostra del cinema di Venezia, “Il Papà di Giovanna”. Il film ha goduto di un’ottima accoglienza da parte del pubblico, diversamente dall’accoglienza meno entusiasta e più polemica da parte della critica. Che cosa conta di più per lei? Il successo presso la critica o presso il pubblico?
Il mio film ebbe anche buone recensioni della critica, poi ci fu qualcuno che obiettò sul lieto fine, dimostrando un po’ il provincialismo che ancora ci caratterizza. Per un autore il giudizio della critica ha sempre un valore relativo, ormai – ahimè, bisogna fare riferimento quasi esclusivamente agli incassi. In un mondo dominato dall’ossessione della quantità, il numero degli spettatori è indice della qualità del prodotto, cosa che non sempre è vera, anzi spesso c’è una disfasia e le cose che vanno meglio sono le più brutte e viceversa. Purtroppo la nostra società ha intrapreso questo percorso, per cui si giudica un prodotto cinematografico o televisivo in base al successo di spettatori, si dà un voto a tutto e spesso anche chi è chiamato a dare questi voti non si sa su che basi e a che titolo ricopra quel ruolo.
Secondo lei, come mai il cinema italiano è così bistrattato, mentre all’estero i prodotti cinematografici hanno una risonanza maggiore e migliore?
Il cinema italiano non ha molto successo nel mondo, è capitato di recente che un italiano abbia vinto un Oscar, ma in genere non c’è una grande esportazione; in passato grandi nomi, grandi autori e attori avevano tanta attenzione anche all’estero, adesso il nostro paese ha perso la propria identità. Il nostro è un paese genericamente occidentale, in cui le persone si vestono, parlano e pensano come potrebbero vestirsi, parlare, pensare in Belgio, in Olanda, in Germania, in Francia, ma che non ha più niente di tipicamente italiano. Si è persa la tipicità che il cinema italiano possedeva all’epoca del dopoguerra, del neorealismo, in cui esso raccontava l’intera nazione, a volte anche per stereotipi, ma che funzionavano. Adesso i giovani italiani sono cittadini del mondo, parlano il linguaggio di internet, non hanno nulla di speciale, di tipico. Basta guardare Sanremo: che tipo di canzoni sono? E che italiano viene fuori da quei testi? Per tornare al cinema, i film che escono quotidianamente sono privi di quell’afflato che rappresenta la spinta verso qualcosa di eccezionale, che nel cinema italiano delle origini era molto forte e presente.
In un recente incontro con gli studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo, lei ha dichiarato: “I primi anni della mia vita li ho passati in campagna, è qui che ho avuto i miei imprinting. La vita secondo la cultura contadina, è una collina, e la collina è un’ellissi divisa in quarti. Più sali questa collina, più puoi immaginare, illuderti, credere che tutto quello che succede oltre la collina potrà esser come decidi tu”. Ci spiega meglio cosa intende?
È semplice: nella prima parte della vita noi abbiamo la possibilità di immaginarci ciò che ci aspetta, c’è la speranza, l’attesa, l’immaginazione e anche l’illusione di ciò che saremo, che vedremo i nostri sogni realizzati. Una volta sulla collina, comprendiamo che gran parte della vita, quella bella, è già vissuta, ed era la salita, mentre la discesa è un po’ deludente, così cominciamo a guardarci indietro, ci rifugiamo nei ricordi, in quello che siamo stati, non che saremo.
C’è una sua affermazione che ci colpisce in maniera profonda: «Il film che si ama di più non è quello che si è fatto, ma quello che si vorrebbe aver saputo fare». Perché questo, Maestro?
Questa è una grande verità, che scaturisce da una semplice riflessione: quando si è consapevoli di aver ricevuto un dono, si è costantemente mossi dall’insoddisfazione. Si cresce, si migliora, si va avanti solo se si è insoddisfatti, per questo io mi chiedo tutte le volte che cosa potrei e che cosa avrei potuto fare meglio nel mio lavoro.
Maestro lei ha collaborato come sceneggiatore al film “Salò”. Com’è stato il suo incontro con Pier Paolo Pasolini?
È stato un incontro assolutamente casuale, perché a Pasolini non era piaciuta la sceneggiatura del film, ma si incuriosì nei confronti di questo ragazzotto di Bologna, e quando gli portai il testo, mi chiese chi fossi, mi invitò ad entrare e fu molto cortese, allora io speculai su questa sua gentilezza, cercai di impietosirlo e all’inizio forse fu mosso più da commiserazione che da altro. Poi, quando lavorammo, mi utilizzò e come, ma l’avvio fu un vero accattonaggio d’affetto da parte mia, che fece breccia nel suo animo cortese e capace di grande tenerezza.
Con Ettore Scola scompare un protagonista del cinema italiano. La cultura e lo spettacolo mondiali perdono un grande maestro che ha raccontato, con acume e sensibilità straordinari, vicende, personaggi e periodi della nostra storia contemporanea. Come lo ricorda lei?
Ettore Scola è stato l’unico regista – e collega – che abbia proposto di produrre un mio film, non era mai successo! Ho sempre tenuto nel cuore quel gesto, per questo ho stretto un rapporto d’affetto particolare con lui. È vero anche che, se da un lato Ettore Scola scompare, dall’altro, cinematograficamente parlando, era scomparso già da tempo. Egli ha avuto, contrariamente a me e a tanti altri, il coraggio di smettere, che non è cosa facile; egli era molto severo con se stesso e capì che non poteva più continuare a fare questo lavoro, che era arrivato a dare tutto ciò che poteva dare. Non so se questo lo avesse reso felice, ma sicuramente era molto lucido quando lo ha deciso.
Andrea Roncato dice di lei questo: “Lavorare sei mesi con Pupi Avati equivale ad andare a scuola sei anni, tutti i giorni”. Cosa trasmette di così profondo ad attori ed attrici?
Questo è senz’altro esagerato. Immaginavo fosse stato Andrea a dire questa cosa… So che lui pensa ciò che ha detto, ma è un caso a parte, non ha mai avuto nessuno che lo plasmasse, che si curasse di lui, anzi spesso ha fatto film il cui l’unico scopo era far ridere, quindi quando si è trovato con me si è sentito improvvisamente accudito, seguito, accompagnato e ha capito come sarebbe potuta essere la sua carriera cinematografica se avesse incontrato un regista di spessore prima. Andrea ha potenzialità straordinarie, purtroppo l’ambiente cinematografico è razzista in modo spietato e quando io ho tentato di portarlo via da quel contesto in cui è cresciuto, non c’è stato nessuno che ha seguito il mio esempio e ha fatto lo stesso con lui, ma anche con altri attori.
I nostri registi passati – De Sica, Fellini – e quelli attuali – Tornatore, Sorrentino, Benigni – hanno dato lustro al nostro amato cinema, conquistando persino l’Oscar. Secondo lei è vero che siamo un popolo di grandi artisti?
Io credo che noi siamo un popolo di grandi artisti non solo per questi registi che ha citato. Nel presente, facendo un confronto con il passato, la produzione artistica italiana è ai minimi storici: l’Oscar spesso certifica un successo che non sempre è qualitativamente alto. I capolavori del passato, di cui dobbiamo andar fieri, sia musicali che letterari che cinematografici, non hanno nessun riscontro nel presente: non c’è nulla oggi che sia minimamente paragonabile a ciò che è stato prodotto nei secoli passati.
Che differenza trova lei tra il cinema e la televisione?
La televisione oggi permette di raccontare storie che il cinema non consente più di raccontare. Certe tematiche di ambito sociale e anche culturale, al cinema non si possono proporre più, c’è una grande domanda di commedie, anche se ci sono le eccezioni, come per esempio dimostra la produzione di Sorrentino. Il cinema, così come la fiction televisiva, cerca ormai di blandire il pubblico, di dargli ciò che vuole, anche se la televisione rispetto al cinema consente a volte di fare cose un tantino diverse, forse anche per ripulire la propria immagine. Anche negli Stati Uniti ormai le cose migliori vengono dalla televisione.
Gli attori di oggi sono propensi al sacrificio artistico?
Gli attori di oggi sono dei disperati. Io insegno in scuole di recitazione, li vedo e fanno una tenerezza sconfinata. Certo, vorrebbero diventare tutti e subito Di Caprio, ma se offri loro una battutina ti ringraziano per tutta la vita, dormono sotto ai ponti, fanno sacrifici enormi anche solo per una piccola possibilità. Purtroppo molti di loro non sono fatti per fare questo nella vita e non è facile dirlo, far prendere loro coscienza.
All’inizio dell’intervista ha affermato di non aver mai fatto film western. Come mai?
Innanzitutto non mi è mai piaciuto il genere, inoltre non è facile ambientare un film western in Italia. Leone era un appassionato del genere “western spaghetti”, io sono più un appassionato dell’America jazz.
Maestro, so che lei non ha mai avuto l’onore di lavorare col grande Alberto Sordi. Le è dispiaciuto?
Tantissimo, perché il grande Alberto Sordi mi diceva spesso di incontrarci sul set, così una volta gli mandai il copione di un personaggio, ma lui si aspettava una cosa più corposa e quindi dopo non c’è stata più la possibilità di farlo. C’è da dire che ormai, anche a quel tempo, i film che lo avevano consacrato Sordi li aveva già fatti, non aveva certamente bisogno di me; il compito del regista è trovare un attore che abbia ancora una parte da dare e da darsi, Alberto Sordi aveva già dato tutto. Anche Mastroianni volle lavorare con me, ma anche lui come Sordi aveva già fatto i suoi capolavori.
I nostri lettori sono sempre molto curiosi, la nostra rivista ha una diffusione a catena in tutta la regione, quindi ci può svelare a cosa sta lavorando in anteprima?
Sto preparando una cosa per la televisione, ma non posso parlarne adesso perché non sappiamo gli sviluppi che prenderà. Sarà una sorpresa, per me e per voi!